Buddismo Indice Generale

 

BODHIDHARMA

Gli storici concordano che l’unica opera fra quelle attribuite a Bodhidharma (sei trattati in tutto) che potrebbe essere stata scritta veramente da lui, ammesso che si riuscisse a constatare l’effettiva esistenza del personaggio, è il “Trattato sui due accessi e le quattro pratiche” (“Erh-ju ssu-hsing lung”).

I due accessi sono:

la consapevolezza che la natura buddica è unica e condivisa da tutti gli esseri viventi, illuminati o ignoranti;

la meditazione, o più precisamente la “contemplazione del muro” (pi-kuan).

La contemplazione del muro, che in epoca più recente prenderà il nome giapponese di zazen, fu, come vuole la tradizione, la tecnica di meditazione che Bodhidharma praticò nel monastero di Shao-lin.

Sedere davanti ad un muro bianco implica una assenza degli intensi stimoli sensoriali cui la vita quotidiana ci sottopone e un progressivo acquietarsi della mente, nonché uno stato di simbiosi, di non separazione fra oggetto (muro) e soggetto (meditatore) e quindi una trascendenza radicale del dualismo mentale.

Il fatto che questo superamento del dualismo soggetto/oggetto comprende anche il superamento del dualismo illuminazione/non illuminazione, la dice lunga sul radicalismo del Ch’an rispetto al buddismo, anche mahâyâna, e alla sua “ansia” di giungere e far giungere all’illuminazione.

Si consideri inoltre che nel testo, alla faccia dell’intellettualismo buddista cinese, viene data l’indicazione di “concentrarsi” sul muro e di non farsi sviare dallo studio dei sutra.

Le quattro pratiche, invece, anch’esse già accennate nel titolo del trattato, sono atteggiamenti che facilitano la percorribilità del sentiero buddico di liberazione.

È opportuno puntualizzare, evitando così di scivolare nella trappola in cui sono caduti quanti, anche dallo Zen, hanno voluto trarre una dottrina religiosa, che si tratta non di atteggiamenti consigliati o obbligati ma più che altro di una descrizione della “psicologia“ del Buddha.

Allo stesso modo puntualizziamo che il sentiero di liberazione cui si fa riferimento non è una liberazione dell’io dai suoi limiti ma una liberazione DALL’io e basta.

1. La pratica detta della “accettazione delle circostanze”, ridonda il concetto nâstikâ del Buddha storico: non esiste un io, un sé, un centro, se non come illusione da cui liberarsi.

Questa terribile verità è eretica non solo per la mente induista ma per la mente umana in generale. Non esistendo un centro permanente ma solo illusioni temporanee, non rimane che accettare le circostanze nel loro oscillare dal guadagno alla perdita, dal piacere al dolore.

2. La pratica della “retribuzione in base all’ostilità”, ovvero l’esistenza imperterrita del ciclo delle nascite, a causa di ostilità che si autoperpetuano e cercano nuovi teatri in cui esibirsi. Ovviamente, non assecondare tali ostilità impedisce ulteriori accumuli e quindi ulteriori nascite.

Notiamo qui come il concetto di “non ostilità” non è un precetto morale o un comandamento da eseguire senza comprensione, anzi appare più, per dirla con Nietzsche proprio a proposito del buddismo, come una norma igienica.

3. La pratica dell’ “assenza di brama”: chi pensa di influire sulla realtà, che è uno scorrere incessante, per trasformarla è vittima della sete di vivere. Bodhidharma consiglia l’inattività (wu wei) e il concetto ritorna ad essere quello dell’“accettazione delle circostanze”.

4. La quarta pratica è quella di “conformità alla dottrina”. Il titolo può trarre in inganno rispetto a quanto stiamo esponendo. Ma la dottrina è Dharma, la “retta visione” della “non esistenza”. La comprensione del Dharma porta alla comprensione della non dualità (vedi più sopra) e l’autore suggerisce esplicitamente di attenersi alla dottrina ma di agire spontaneamente.

Questo paradosso esprime il chiaro messaggio, espresso comunque anche altrove nella letteratura buddista, di vivere su due livelli, quello della mente che abbisogna di sicurezze e di norme, l’altro è il livello della Realtà che comunque in ogni momento può spazzar via qualunque costruzione mentale.

L’invito è dunque alla flessibilità, a rispondere al momento, liberi da vincoli dottrinali che vanno usati, semmai, e non alzati al livello di infallibilità.

L’originalità del trattato, rispetto ai già noti, all’epoca, principi del buddismo mahâyâna, consiste soprattutto nel concetto wu wei di inattività. È importantissimo sottolineare qui che tale concetto è il matrimonio, ci sia concesso scrivere, fra il Tao e il buddismo, unione da cui nasce il Ch’an, lo Zen.

Nel buddismo, dalla predicazione del Buddha in poi, la trasformazione, anche per lo stesso Gautama, è qualcosa da esorcizzare in quanto il divenire della vita è terribile perché espone alla morte, alla delusione, alla perdita, alla malattia. Il buddista è angosciato dalla trasformazione e si sforza di trascenderla, di raggiungere uno stato in cui nulla più cambia, ed è l’assenza di cambiamento in sé che produce beatitudine. Nel Tao Te King, invece, il cambiamento, la trasformazione, è accettato come evento naturale.

Da questo contributo del Tao al buddismo, consideriamo la nascita del Ch’an che non pretende più di orientare la vita a proprio piacimento, e quindi neanche di orientarla verso l’illuminazione, ma esalta, anzi accetta, la spontaneità, perché riconosce la trasformazione incessante di tutte le cose con maggiore serenità, accettando ciò che accade in uno stato detto appunto wu wei.